“L’indiano Mario Moncada di Monforte propone la lettura della storia umana con le lenti del buon senso.
E’, questo che ho avuto il piacere di leggere in anteprima, un lavoro dolce e forte, il tentativo – riuscito – di un uomo colto di rendere domestica e rassicurante la storia.
Perché l’indiano? Perché sono le parole del pellerossa Seattle il cuore di questo libro.
Quello di Mario Moncada è un grosso sogno, un progetto che attraversa le sue pagine: che le parole del capo indiano possano divenire cultura occidentale, che possa realizzarsi nei valori una positiva contaminazione.
Una contaminazione? Forse – se si pensa a quanto quelle parole sono identiche a quelle dell’ occidentale San Francesco – più che una contaminazione un recupero di tradizioni, di valori. Un ritorno alla centralità della persona umana e della natura.
Una ultima considerazione: secondo il cammino dell’umanità si evocano guerre e tragedie ma alla fine prevale una grande, grande speranza, una grande serenità.
Del dono di quella speranza e di quella serenità voglio dire grazie.”
Leoluca Orlando
(dalla presentazione del libro scritta dal sindaco di Palermo)
RECENSIONI
L’«uomo totale» di Mario Moncada
Anno 136 N. 161 Giovedi 13 giugno 1996
PALERMO. (anfi) Tutti i valori costruiti dall’uomo moderno in duemila anni sono forse crollati o magari sono da reimpostare in una prospettiva che non sia più occidentale ma umana. Ecco, in breve, il libro L’uomo totale. Oltre la sconfitta dell’uomo moderno (ed. Novecento), scritto da Mario Moncada di Monforte, appartenente ad una famiglia che ha dato alla storia tre viceré.
Spiega l’autore: «Se letto in modo ottimistico, il libro presenta una speranza per il futuro; se letto dal punto di vista occidentale, nello scorrere delle pagine si ha la conferma che il futuro non sarà facile, pregno dei problemi del nostro tempo». «L’uomo occidentale – continua Moncada – si deve preparare a rinunciare a parte del benessere che ha accumulato permettendo che diventasse sempre più ampio il divario tra i poveri e i ricchi della Terra. In molti cominciano a contestare l’Occidente e dai Paesi più poveri vengono sempre più immigrati che pretendono di non essere esclusi dalla miglior qualità della vita dell’Occidente. I biologi ci dicono che fra cinquecento anni non ci sarà più la razza bianca: l’Occidente, consapevole di questo futuro, deve gestire il rapporto con le masse che arrivano da tutto il mondo, in modo da prepararne la fusione con il “bianco” che sarà cancellato. Ci vorranno secoli ma bisogna già preoccuparsi di quello che accadrà. La cultura occidentale può essere utile con la sua saggezza democratica e con la sua tolleranza».
Quali sono gli strumenti, soggetti o oggetti, di questa prossima rivoluzione
«Oltre gli extracomunitari, le donne – con lo spirito nuovo che portano alla cultura occidentale – il volontariato che diventa sempre più forte, e i verdi che difendono la vera dimensione del rapporto dell’uomo con la natura e tentano di recuperarlo».
Non rischia di apparire arbitrario guardare tanto lontano? «Per abitudine professionale sono portato a proiettare avanti l’attenzione e ho questa impostazione anche nella mia curiosità culturale. È un problema di sensibilità perché credo che si viva molto sul presente e forse si sbaglia. Il passato mi interessa poco. Ho scritto un saggio, venti anni fa, in cui presentavo la Sicilia come nazione, in quanto espressione di valori negativi, di ritardi culturali, di difetti civili e sociali. In quell’occasione trattavo un po’ male quello che resta dell’aristocrazia siciliana responsabile del nostro passato ».
Anni ’60, figure come J.F. Kennedy, il Papa buono, il boom economico, l’illusione della pace. Che cosa ha rappresentato tutto questo per lei che nel libro dedica spazio a questi temi, a questi personaggi? «Il libro è un po’ una biografia culturale. Negli anni ’60 c’era grande entusiasmo: la mia maturazione parte da certe emozioni di quegli anni che si sono anche modificate e arricchite strada facendo».
Serve la ragione per remare in questo oceano che è l’esistenza? «In certi momenti siamo ragione, in altri momenti siamo emozione o fantasia; bisognerebbe trovare il punto di equilibrio per vivere in armonia queste inclinazioni umane. Per Dostoevskij, la ragione non costituisce più del 25 per cento dell’essere umano».
Nota: L’intervista è focalizzata sull’autore e non prende in considerazione il tema del saggio che guarda all’evoluzione della sensibilità socio-culturale umana nel quadro delle riflessioni di Erich Fromm.
Intervista di Antonella Filippi